Inbound 2017: cosa ho colto

Inbound 2017: cosa ho colto

Non tanto cosa ho ascoltato o imparato (comunque parecchio), piuttosto la lente con la quale ho analizzato la conferenza nel suo complesso.
Inizio a scrivere questo contenuto che sono ancora al Logan Airport di Boston.
Riempio le tre ore di attesa prima del decollo e colgo l’occasione di avere l’evento ancora fresco in mente.
Apro con un dettaglio importante dal quale parte tutta la riflessione: Inbound è un evento che Hubspot (una piattaforma di inbound marketing) organizza a Boston – dove sono locati i loro uffici – dal 2012.
Cosa c’è da memorizzare di questo dettaglio: inbound marketing.
Utili al mio ragionamento, mi porto dietro due elementi centrali della teoria dell’inbound marketing:

  • il funnel di conversione, ovvero l’immaginare il potenziale cliente come “immerso” in un percorso durante il quale, man mano che procede, avanza anche il grado di coinvolgimento con l’azienda, quindi la fiducia, quindi la probabilità che qualcuno compri qualcosa
  • le buyer persona, cioè uno strumento (più una metodologia, un approccio) che fissa nella testa dell’azienda che i suoi interlocutori sono molteplici, con esigenze e dubbi diversi che necessitano quindi di trovare una risposta e un aiuto tramite contenuti diversi, fatti su misura

È facile intuire che l’evento ha avuto un ruolo preciso all’interno del processo di inbound marketing che Hubspot applica su se stessa (per trovare nuove agenzie certificate che rivendano il prodotto, per trovare nuovi clienti che acquistino la licenza).
Ma quello che ho colto è stato che l’evento è stata contestualmente anche la rappresentazione – condensata – di tutto il processo di inbound marketing.
Inbound 2017, Boston
Torniamo al funnel di conversione.
Esistono diversi modelli per descriverlo.
Uno abbastanza diffuso è AIDA (Awareness, Interest, Desire, Action).
Hubspot se n’è invece creato uno suo: ACCD (Attract, Convert, Close, Delight).
Senza entrare nel merito delle differenze – inutile per il mio fine – potremmo semplificarla così:

  • un potenziale cliente non sa ancora di essere un potenziale cliente; il suo status quo sta per cambiare – magari condizionato da fattori esterni – e presto avrà necessità di risolvere delle nuove esigenze;
  • il potenziale cliente entra maggiormente nel merito e comprende che ha un’esigenza e la sa descrivere;
  • raccogliendo informazioni e leggendo pareri inizia ad avere un’idea dell’offerta del mercato, comprende quali sono le possibili soluzioni, contestualizza il prezzo;
  • finalmente il potenziale cliente decide a quale soluzione affidarsi cercando di capire dove poter acquistare e se esistono delle opportunità per ottenere un vantaggio economico;
  • l’ultimissima fase è quella dove il cliente – se soddisfatto – può generare del passaparola positivo nei confronti dell’azienda favorendone la visibilità su altre persone e riducendo – in teoria – i costi di acquisizione di un nuovo cliente poiché il passaparola è il mezzo più potente di tutti.

In volgare, quando voglio riassumere questo ipotetico imbuto ad altri addetti al settore, dico una cosa del tipo:

  • contenuti “alti”, ispirazionali, che danno uno stimolo
  • contenuti utili, che risolvono un problema e che menzionano in ultima l’azienda
  • contenuti riferiti esclusivamente alla soluzione che racconta, per non “strappare” troppo dal punto precedente, quali sono i vantaggi per chi la comprerà
  • un’esperienza incredibile per favorire il passaparola

Tornando all’evento, posso scrivere di aver ritrovato esattamente questi tre tipi di contenuto.
Senza menzionare tutti i relatori, riporto solo:

  • Michelle Obama che, semplicemente, ha fatto venire i brividi – oltre che obbligare tutti a puntare la sveglia alle 6:30 onde evitare le code per questioni di sicurezza (anche se è stato pessimo, tra gli altri c’era anche Ed Catmull, presidente e co-fondatore di Pixar, che ha dedicato qualche pensiero anche a Steve Jobs).
  • Rand Fishkin che – come altri esperti di settore – ha parlato di inbound marketing, focalizzandosi nel suo caso solo su un “pezzo” che è stato quello della search; mettendo assieme un po’ tutti i relatori di questo livello e tutti i “pezzi” dei loro contributi, si ottiene una fotografia completa dell’inbound marketing. Di questa tipologia, tra quelli che ho seguito io, in pochissimi hanno menzionato Hubspot.
  • In ultima esperti di Hubspot, agenzie certificate e altre piattaforme partner che hanno portato il loro contributo questa volta – giustamente – legato a doppia mandata alla piattaforma (senza stonare e cadere nella marketta).

Rand Fishkin e Marco Ziero all'edizione 2017 di Inbound, Boston
Passando alle buyer persona, ho ritrovato nella varietà e numerosità di argomenti trattati, la metodologia dell’aver creato qualcosa a misura dell’interlocutore; che si fosse all’inizio o si avesse la necessità di esplorare più in profondità un tema, c’era comunque una risposta, una possibilità.
Tentando di organizzare gli interventi in pochi gruppi, si è parlato molto anche di:

  • analytics
  • branding
  • content
  • CRO
  • email marketing
  • internazionalizzazione
  • paid advertising
  • SEO
  • social media
  • strategia

E ad ulteriore conferma di ciò, basta dare un’occhiata a com’erano organizzati gli interventi nel sito dell’evento; alcune categorie erano nominate:

  • executive (per chi già se ne sta occupando e ha esperienza);
  • grow with Hubspot (per crescere con la piattaforma, quindi chi è all’inizio);
  • hacks tips and tricks (trucchi avanzati, quindi per chi è già un po’ più preparato);
  • inbound sales (per i commerciali che vogliono far evolvere la loro metodologia legata alla vendita).

Unendo di nuovo i due elementi, emerge che l’evento ha consentito, a prescindere dal livello di preparazione, di affrontare i temi preferiti (e più utili per la propria attività) alternati a contenuti altamente ispirazionali che, in gran parte, condividono i valori con quelli dell’inbound marketing.
Sono giunto quindi alla netta sensazione che Inbound 2017 sia stata un’ottima rappresentazione – condensata – della metodologia e dei contenuti dell’inbound marketing. Giustamente, vendendo questa disciplina, ci credono e la applicano a loro stessi.
E chiudo con una nota sui contenuti.
Forse la lezione che testimonierò maggiormente da questa mia esperienza quando la racconterò ai clienti sarà il fatto di crederci, ma di crederci davvero, che significa anche investire, investire tanto.
Non è troppo romantico ma chiudo con i numeri, con i soldi (perché alla fine – o all’inizio – l’inbound marketing passa anche da lì):

Alcuni amici italiani hanno stimato – davanti a qualche birra 🙂 – che l’evento possa essere costato tra i 20 e i 50 milioni di $.
Ora si potrebbe stare qui a dire che, con i biglietti e gli sponsor, se li sono ripresi tutti (e ci mancherebbe altro!).
Il fatto è che, ad un certo punto seduti attorno ad una certa tavola, qualcuno – di fronte ai 200.000$ per Michelle Obama – ha detto “Sì, facciamolo! Forse non porterà subito delle vendite ma genererà valore, farà ancora più grande il nostro brand, le vendite le porterà dopo. Eccome se le porterà”.
E questa è una riflessione che condividerò con i miei futuri clienti ogni volta che, di fronte a un’iniziativa di, per esempio, lead generation, tutto ciò che si sentiranno di mettere a disposizione per ottenere nuove opportunità commerciali sarà uno sconto del 10%. Perché, com’era la credenza? Che online si possono fare i soldi investendo una pipa di tabacco, giusto?
Manca un’ora e mezza all’imbarco.
Mangio qualcosa e volo a casa.
Ciao Inbound.
Ciao Boston, mi sei piaciuta.
 

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Marco Ziero
marco.ziero@mocainteractive.com
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